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sabato 14 aprile 2012

SE HAPPY HOUR INCONTRA ARCHI-FOOD



di ALBERT

Archi-Food? Archi-Risto? RistoGatti?  A giudicare dagli sforzi di patron e soci per rendere sempre più trendy, minimal e “disained” i luoghi di ristorazione (dalla pizzeria allo stellato) si direbbe che, banalmente, “l’occhio vuole – sempre di più - la sua parte”.  Si potrebbe quindi già concludere qui sposando acriticamente il fondato luogo comune che accredita come migliori, più onesti, buoni, genuini, i ristoranti brutti. Più brutti sono i quadri alle pareti (ma quanto sono brutti i quadri dei ristoranti italiani?) meglio si mangia. Non è sempre vero ma spesso era ed è ancora così.


Una volta (25-30 anni fa) c’era chi misurava la “bontà” di un locale come inversamente proporzionale all’altezza del macinapepe-minareto fallico. Non saremo certo noi, antipatizzanti un po’per partito preso del km zero, a farci facilmente conquistare dalle tovaglie a quadretti, tovaglioli a ventaglio e dai fiaschi finto-impagliati di vino della casa. Ma poi ci sono quelli (e sono davvero tanti) che hanno orecchiato la marchesitudine con 35 anni di ritardo: pensavano forse che la nouvelle cuisine fosse la Francia intesa come nuova “cugina” dell’Italia senza molte implicazioni gastronomiche.  Dai piatti scodella “saturno” (ma sì, si capisce a cosa alludiamo) con qualche colore intorno e pietanze tutte rigorosamente arabescate sulla “corona”, con pseudografie giapponesi financo sulla bresaola, o erba tagliuzzata con la forbice sulla cotoletta alla milanese. Una spolveratina di prezzemolo sul bordo del piatto è d’obbligo (forse per nascondere le impronte digitali dei cuochi).  Composizioni spesso stucchevoli ma qualche volta anche carine se non fossero rimasticature grafiche di molti anni fa. Oppure il minimal-giap. Le tovaglie – tovagliolo tipo breakfast all’americana (ma non era giap?) che scorrono da una parte all’altra del tavolo e qualche volta (se si è in quattro) si incrociano lasciando liberi gli angoli.  Anche in ristoranti molto buoni. Anche in ristoranti buonissimi.


Ultimamente – e abbiamo ben presente soprattutto Milano – non c’è ristorante che non comunichi oltre che con il sito internet e con il “sito” inteso come indirizzo stradale (diffidate di chi usa a sproposito la parola “lochésciòn”) –  anche con gli arredi e il resto.
Bicchieri. Palloni gonfiati “a balloon” di proporzione esagerata per qualsiasi tipo di vino. Il naso deve starci sempre, ma gli occhi è meglio che stiano fuori. Ma abbasso sempre la flùte piccola e stretta come un pitale che però è per fortuna in via di estinzione. Ormai per l’acqua il vetro è colorato quasi sempre. Tipo vasetto per i fiori. E se c’è un moschino non si vede.
Imperversa il finger food che ha già stufato come i vasi enormi fuori dei locali (ristoranti e alberghi) che se la tirano di più. E gli “assaggini” che fanno molto happy hour.


Conclusione: ognuno cerchi – anche Albert – di fare al meglio quello che sa con il gusto che gli è proprio. Se allarghiamo gli orizzonti (molto oltre il km zero) non possiamo che trarne tutti gran giovamento.  Anche se abbiamo già visto molte volte che quello che sembra orripilante oggi, poi viene digerito – è il caso di dire – come un alka-seltzer. O anche no. Dipende. Dipende dallo stomaco.


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