di ALBERT
Archi-Food? Archi-Risto? RistoGatti? A giudicare dagli sforzi di patron e soci
per rendere sempre più trendy, minimal e “disained” i luoghi di ristorazione
(dalla pizzeria allo stellato) si direbbe che, banalmente, “l’occhio vuole –
sempre di più - la sua parte”. Si
potrebbe quindi già concludere qui sposando acriticamente il fondato luogo
comune che accredita come migliori, più onesti, buoni, genuini, i ristoranti
brutti. Più brutti sono i quadri alle pareti (ma quanto sono brutti i quadri
dei ristoranti italiani?) meglio si mangia. Non è sempre vero ma spesso era ed
è ancora così.
Una volta (25-30 anni fa) c’era chi misurava la “bontà” di
un locale come inversamente proporzionale all’altezza del macinapepe-minareto
fallico. Non saremo certo noi, antipatizzanti un po’per partito preso del km
zero, a farci facilmente conquistare dalle tovaglie a quadretti, tovaglioli a
ventaglio e dai fiaschi finto-impagliati di vino della casa. Ma poi ci sono
quelli (e sono davvero tanti) che hanno orecchiato la marchesitudine con 35
anni di ritardo: pensavano forse che la
nouvelle cuisine fosse la Francia intesa come nuova “cugina” dell’Italia
senza molte implicazioni gastronomiche. Dai piatti scodella “saturno” (ma sì, si capisce a cosa
alludiamo) con qualche colore intorno e pietanze tutte rigorosamente arabescate
sulla “corona”, con pseudografie giapponesi financo sulla bresaola, o erba
tagliuzzata con la forbice sulla cotoletta alla milanese. Una spolveratina di
prezzemolo sul bordo del piatto è d’obbligo (forse per nascondere le impronte
digitali dei cuochi). Composizioni
spesso stucchevoli ma qualche volta anche carine se non fossero rimasticature
grafiche di molti anni fa. Oppure il minimal-giap. Le tovaglie – tovagliolo
tipo breakfast all’americana (ma non era giap?) che scorrono da una parte all’altra
del tavolo e qualche volta (se si è in quattro) si incrociano lasciando liberi
gli angoli. Anche in ristoranti
molto buoni. Anche in ristoranti buonissimi.
Ultimamente – e abbiamo ben presente soprattutto Milano –
non c’è ristorante che non comunichi oltre che con il sito internet e con il
“sito” inteso come indirizzo stradale (diffidate di chi usa a sproposito la
parola “lochésciòn”) – anche con
gli arredi e il resto.
Bicchieri. Palloni gonfiati “a balloon” di proporzione
esagerata per qualsiasi tipo di vino. Il naso deve starci sempre, ma gli occhi
è meglio che stiano fuori. Ma abbasso sempre la flùte piccola e stretta come un
pitale che però è per fortuna in via di estinzione. Ormai per l’acqua il vetro
è colorato quasi sempre. Tipo vasetto per i fiori. E se c’è un moschino non si
vede.
Imperversa il finger food che ha già stufato come i vasi
enormi fuori dei locali (ristoranti e alberghi) che se la tirano di più. E gli
“assaggini” che fanno molto happy hour.
Conclusione: ognuno cerchi – anche Albert – di fare al
meglio quello che sa con il gusto che gli è proprio. Se allarghiamo gli
orizzonti (molto oltre il km zero) non possiamo che trarne tutti gran
giovamento. Anche se abbiamo già
visto molte volte che quello che sembra orripilante oggi, poi viene digerito –
è il caso di dire – come un alka-seltzer. O anche no. Dipende. Dipende dallo
stomaco.
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